giovedì 21 aprile 2011
Epilogo
Qui finisce il manoscritto che è stato ritrovato della storia di Zadig. Si sa che egli ha sopportato ben altre traversìe, le quali sono state fedelmente trascritte. Si pregano i signori interpreti di lingue orientali di darne comunicazione se esse dovessero giungere fino a loro.
Capitolo 21 - Gli Enigmi
Capitolo 21
Gli enigmi
Zadig, fuori di sé, e come un uomo vicino a cui è caduto un fulmine, procedeva a casaccio.
Entrò in Babilonia il giorno in cui coloro che avevano combattuto nel torneo erano già radunati nel grande vestibolo del palazzo per risolvere gli enigmo e per rispondere alle domande del Gran Sacerdote. Tutti i cavalieri erano arrivati ad eccezione dell’armatura verde.
Appena Zadig apparve in città, la gente si assembrò attorno a lui; gli occhi non si saziavano di guardarlo, le bocche di benedirlo, i cuori di augurargli l’impero. L’Invidioso lo vide passare, fremette e si voltò: il popolo lo portò fino al luogo dell’assemblea. La regina, cui era stato comunicato il suo arrivo, era in preda all’agitazione del timore e della speranza; l’inquietudine la divorava: non riusciva a comprendere né perché Zadig fosse senza armi, né come mai Itobad indossasse l’armatura bianca.
Un mormorio confuso si sollevò alla vista di Zadig. Erano sorpresi ed estasiati di rivederlo: ma non era consentito se non ai cavalieri che avevano combattuto di presentarsi in assemblea.
“Io ho combattuto come gli altri” disse, “ma un altro qui indossa le mie armi ed in attesa di avere l’onore di provarlo, chiedo il permesso di presentarmi per risolvere gli enigmi.
Si andò ai voti: la sua reputazione di integrità era ancora così fortemente impressa negli animi, che non esitarono ad ammetterlo.
Il Gran Sacerdote pose per primo questo quesito:
“Quale tra tutte le cose del mondo è la più lunga e la più corta, la più rapida e la più lenta, la più divisibile e la più estesa, la più trascurata e la più rimpianta, senza di cui nulla può esser fatto, che divora tutto ciò che è piccolo e vivifica tutto ciò che è grande?”
Tocca ad Itobad parlare. Rispose che un uomo del par suo non capiva nulla di enigmi, e che a lui bastava aver vinto con dei grandi colpi di lancia.
Alcuni dissero che la chiave dell’enigma era la fortuna, altri la terra, altri la luce. Zadig rispose che era il tempo: “Nulla è più lungo” aggiunse “ poiché è la misura dell’eternità; nulla è più corto poiché è insufficiente per tutti i nostri progetti;
nulla è più lento per colui che aspetta; ma niente è più veloce per colui che gioisce; si estende all’infinito nel grande; si divide all’infinito nel piccolo; tutti gli uomini lo ignorano, tutti ne rimpiangono la perdita; nulla può essere fatto senza di lui; fa dimenticare tutto ciò che non è degno per i posteri e rende immortali le grandi cose.” L’assemblea convenne che Zadig aveva ragione. Chiesero poi: “Qual è la cosa che si riceve senza ringraziare, della quale si gioisce senza sapere come, che si dona agli altri quando non si sa dove si è, e che si perde senza accorgersene? Ciascuno disse la sua: Zadig solo indovinò che era la vita. Egli risolse tutti gli altri enigmi con la medesima facilità. Itobad continuava a dire che non vi era nulla di più semplice e che lui ne sarebbe venuto a capo altrettanto facilmente se solo se ne fosse dato pena. Furono proposte delle domande sulla giustizia, sul sommo bene, sull’arte di regnare. Le risposte di Zadig furono giudicate le più solide. “E’ veramente un peccato” dicevano, “che uno spirito così brillante sia un così cattivo cavaliere” “Illustri signori” disse Zadig, “Io ho avuto l’onore di vincere il torneo. E’ a me che appartiene l’armatura bianca. Il nobile Itobad se ne è impadronito mentre dormivo: evidentemente reputava che gli si confacesse di più della verde. Io sono pronto a dimostrargli su due piedi davanti a voi, con la mia veste e la mia spada, contro tutta la sua bella armatura bianca, che mi ha sottratto, che sono io che ho avuto l’onore di sconfiggere il valoroso Otame.
Itobad accettò la sfida con la massima sicurezza.
Non dubitava che, essendo dotato di elmo, corazza, bracciali, avrebbe avuto agevolmente ragione di un campione in berretto da notte ed in veste da camera.
Zadig estrasse la spada salutando la regina che lo guardava, pervasa di gioia e timore.
Itobad estrasse la sua senza salutare nessuno.
Avanzò verso Zadig come un uomo che non aveva niente da temere.
Era pronto ad aprirgli la testa: Zadig riuscì a parare il colpo, opponendo quello che viene chiamato il forte della spada al debole del suo avversario, di modo che la spada di Itobad si ruppe.
Allora Zadig, afferrato il suo avversario al tronco lo gettò in terra e puntandogli la punta della spada tra le piastre della corazza: “Lasciatevi disarmare” gli disse, “o vi uccido”.
Itobad, sempre sorpreso delle disgrazie che capitavano ad un uomo par suo, lasciò fare Zadig, che gli tolse tranquillamente il suo magnifico elmo, la sua superba corazza, i suoi bei bracciali, le sue brillanti gambiere, se ne rivestì e corse così equipaggiato a gettarsi ai piedi di Astarte.
Cador provò facilmente che l’armatura apparteneva a Zadig. Egli fu riconosciuto re con il consenso di tutti e specialmente di Astarte, che gustava, dopo tante avversità, la dolcezza di vedere il suo amato degno, agli occhi di tutti, di essere suo sposo.
Itobad andò a farsi chiamare eccellenza a casa sua.
Zadig fu re e fu felice.
Aveva presente ciò che gli aveva detto l’angelo Jesrad. Si ricordava anche del granello di sabbia divenuto diamante. La regina e lui adorarono la Provvidenza.
Zadig lasciò la bella e capricciosa Missouf a girare ilmondo. Mandò a chiamare il brigante Arbogad a cui conferì un grado onorevole nel suo esercito con la promessa di promuoverlo dignitario se si fosse comportato da vero guerriero, e di farlo impiccare se si fosse comportato da brigante
Setoc fu chiamato dalla parte estrema dell’Arabia, con la bella Almona, per essere a capo del commercio di Babilonia. Cador fu collocato e favorito secondo i suoi servigi; fu l’amico del re ed il re fu da allora l’unico monarca della terra che avesse un amico.
Il piccolo muto non fu dimenticato. Venne donata una bella casa al pescatore. Orcan fu condannato a pagargli una grossa somma ed a restituirgli la moglie, ma il pescatore, divenuto saggio, non accettò che il denaro.
Né la bella Semire si conolava di aver creduto che Zadig fosse guercio, né Azora cessò di dolersi per avergli voluto tagliare ilnaso.
Egli addolcì le loro pene con dei regali. L’Invidioso morì di rabbia e di vergogna.
L’impero si rallegrò per la pace, la gloria e la prosperità: quello fu il più bel secolo della terra;
essa era governata dalla giustizia e dall’amore
Fu benedetto Zadig e Zadig benedisse il Cielo.
Capitolo 20 - L'Eremita
Capitolo 20
Camminando incontrò un eremita, con una barba bianca e venerabile che gli arrivava alla cintura. Teneva in mano un libro che leggeva attentamente. Zadig si arrestò e gli fece un profondo inchino. L’eremita lo salutò con un’aria tanto nobile e dolce che Zadig ebbe la curiosità di intrattenersi con lui.
Gli chiese che libro leggesse. E’ il libro dei destini, disse l’eremita; volete leggervi qualche cosa?
Mise il libro nelle mani di Zadig che, sebbene fosse esperto di molte lingue, non vi poté decifrare una sola parola.
Ciò raddoppiò la sua curiosità.
“Mi sembrate ben infelice”, gli disse quel buon padre.
“Ahimé! Ne ho ben motivo!” disse Zadig, “Se mi permettete di accompagnarvi”, riprese il vegliardo, “forse vi sarò utile: qualche volta ho sparso sensazioni di conforto nell’animo degli infelici”.
Zadig provò rispetto per l’aspetto, per la barba e per il libro dell’eremita. Trovò nella sua conversazione delle illuminazioni superiori.
L’eremita parlava del destino, della giustizia, della morale, del sommo bene, della debolezza umana, delle virtù e dei vizi, con un’eloquenza così viva e toccante che Zadig si sentì trasportato verso di lui da un fascino invincibile.
Gli chiese con insistenza di non lasciarlo, fin quando non fossero stati di ritorno a Babilonia. “Anch’io vi chiedo una grazia” gli disse il vegliardo; “giuratemi per Orosmade che voi non vi separerete da me per qualche giorno, qualunque cosa io faccia. Zadig lo giurò e partirono assieme.
I due viaggiatori arrivarono a sera ad un superbo castello. L’eremita chiese ospitalità per lui e per il giovane che l’accompagnava.
Il portiere, che poteva essere scambiato per un gran signore, li accolse con una sorta di sdegnosa bonomia. Li presentò ad un capo domestico che fece loro vedere i magnifici appartamenti del padrone. Furono ammessi alla sua tavola all’estremità più lontana, senza che il signore del castello li onorasse di uno sguardo; ma furono serviti come gli altri con delicatezza ed abbondanza.
Gli fu poi dato da lavarsi in una bacinella d’oro ornata di smeraldi e rubini.
Furono condotti a dormire in un bell’appartamento ed il mattino seguente un domestico portò a ciascuno un pezzo d’oro e poi li congedò.
“Il padrone di casa”, disse Zadig lungo il cammino, “mi è sembrato essere un uomo generoso sebbene un po’ altezzoso, esercita nobilmente l’ospitalità”. Dicendo queste parole s’accorse che una specie di tasca molto grande che portava l’eremita sembrava tesa e gonfia: egli ci vide la bacinella d’oro e pietre preziose che costui aveva rubato. Inizialmente non osò dire nulla; ma fu preso da un certo stupore.
Verso mezzogiorno l’eremita si presentò alla porta di una casa molto piccola, dove viveva un ricco avaro; egli vi domandò ospitalità per alcune ore. Un anziano valletto mal vestito lo accolse con un tono sgarbato e fece entrare l’eremita e Zadig nella scuderia, dove gli furono date delle olive marce, del pane cattivo e della birra guasta. L’eremita bevve e mangiò con un’aria altrettanto contenta del giorno prima, poi rivolgendosi a quel vecchio valletto che li osservava entrambi per vedere che non rubassero niente e che li sollecitava a partire, gli regalò i due pezzi d’oro che aveva ricevuto al mattino e lo ringraziò di tutte le sue attenzioni. “Vi prego” aggiunse “fatemi parlare con il vostro padrone”
Il valletto, stupito, annunciò i due viaggiatori: “Magnifico signore”, disse l’eremita,”non posso che molto umilmente ringraziarvi della nobile maniera con cui ci avete ricevuti: degnatevi di accettare questa bacinella d’oro come un piccolo pegno della mia riconoscenza.”
L’avaro per poco non cadde all’indietro. L’eremita non gli diede il tempo di riprendersi dal suo sbalordimento, se ne andò al più presto con il suo giovane viaggiatore. “Padre” gli disse Zadig,”cos’è questo che vedo? Voi non mi sembrate assomigliare in nulla agli altri uomini: rubate una bacile d’oro ornato di pietre preziose ad un signore che vi riceve magnificamente e lo regalate ad un avaro che vi ha trattato in maniera indegna.
“Figlio mio”, disse il vegliardo, “quest’uomo magnifico, che accoglie gli stranieri solo per vanità e per fare ammirare le sue ricchezze, diventerà più saggio; l’avaro imparerà ad esercitare l’ospitalità: non vi stupite di nulla e seguitemi.”
Zadig non sapeva ancora se aveva a che fare con il più folle o con il più saggio tra tutti gli uomini; ma l’eremita parlava con tale ascendente che Zadig, vincolato peraltro dal suo giuramento, non poté impedirsi di seguirlo.
Giunsero a sera ad una casa piacevolmente costruita ma semplice, dove nulla lasciava percepire né prodigalità né avarizia. Il proprietario era un filosofo ritiratosi dal mondo, che coltivava in pace la saggezza e la virtù e che tuttavia non si annoiava affatto.
Si era divertito a costruire quel ritiro in cui riceveva i forestieri con una nobiltà che non aveva nulla dell’ostentazione.
Andò lui stesso dinanzi ai due viaggiatori che fece dapprima riposare in un comodo appartamento. Dopo un po’ di tempo lui stesso andò a prenderli per invitarli ad un pasto onesto e ben inteso, durante il quale parlò con discrezione delle ultime rivolte di Babilonia. Sembrò sinceramente attaccato alla regina, ed aveva auspicato che Zadig fosse comparso in lizza per disputare la corona; ma gli uomini, aggiunse “non meritano di avere un re come Zadig”. Quest’ultimo arrossì e sentì raddoppiare i suoi dolori. Si convenì durante la conversazione, che gli affari di questo mondo non andavano sempre secondo il desiderio dei più saggi. L’eremita sosteneva sempre che non si conoscono le strade della Provvidenza e che gli uomini hanno torto a giudicare di un tutto di cui non colgono che la minima parte.
Si parlò delle passioni: “Ah quanto sono funeste!” diceva Zadig. “Sono i venti che gonfiano le vele del vascello” rispose l’eremita: esse talvolta lo sommergono, ma senza di loro non si potrebbe navigare. La bile rende collerici e malati, ma senza la bile l’uomo non saprebbe vivere. Tutto quaggiù è pericoloso e tutto è necessario.” Parlarono dei piaceri e l’eremita provò che è un regalo della Divinità; “poiché” disse, “l’uomo non può darsi né sensazioni né idee, riceve tutto; il dolore ed il piacere gli vengono da altrove, come il suo stesso essere.”
Zadig era ammirato nel vedere come un uomo che aveva fatto delle cose tanto stravaganti poteva ragionare così bene.
Infine, dopo una conversazione tanto istruttiva quanto piacevole, l’ospite ricondusse i suoi due viaggiatori nel loro appartamento, benedicendo il cielo che gli aveva inviato due uomini così saggi e virtuosi. Offrì loro del denaro in una maniera semplice e nobile che non poteva dispiacere. L’eremita lo rifiutò e gli disse che prendeva congedo contando di partire per Babilonia prima dell’alba.
La loro separazione fu commovente, Zadig soprattutto si sentiva pieno di stima e di simpatia per un uomo così amabile.
Quando l’eremita e lui furono nel loro appartamento fecero a lungo l’elogio del loro ospite. Il vecchio, sul fare del giorno, svegliò il suo compagno. “Bisogna partire” disse, “ma mentre tutti dormono ancora, voglio lasciare a quest’uomo una testimonianza della mia stima e del mio affetto. Dicendo queste parole, prese una fiaccola e diede fuoco alla casa.
Zadig, spaventato gettò delle grida e volle impedirgli di compiere un’azione così orribile.
L’eremita lo trascinò con una forza superiore: la casa era in fiamme.
L’eremita che era già molto lontano con il suo compagno la guardò tranquillamente bruciare.
“Grazie a Dio!” disse, “ecco la casa del mio caro ospite distrutta da cima a fondo! Oh uomo felice!”
A queste parole Zadig fu tentato allo stesso tempo di scoppiare a ridere, di insultare il reverendo padre, di batterlo e di fuggire , ma non fece nulla di tutto ciò, e sempre soggiogato dall’ascendente dell’eremita, lo seguì suo malgrado alla sosta successiva.
Questa fu presso una vedova caritatevole e virtuosa che aveva un nipote di quattordici anni,
pieno di grazie e sua unica speranza. Ella fece meglio che poté gli onori di casa. L’indomani, ordinò a suo nipote di accompagnare i viaggiatori fino ad un ponte che, essendosi rotto da poco, era divenuto un passaggio pericoloso.
Il giovane zelante cammina davanti a loro.
Quando furono sul ponte: “Venite” disse l’eremita al giovane, “bisogna che manifesti la mia riconoscenza a vostra zia”: Lo prende quindi per i capelli e lo getta nel fiume. Il ragazzo cade, riappare un momento sull’acqua ed è inghiottito dal torrente. “Oh mostro! Oh scelleratissimo tra tutti gli uomini!” Urlò Zadig.
“Voi mi avevate promesso più pazienza” gli disse l’eremita interrompendolo, “sappiate dunque che sotto le rovine di quella casa alla quale la Provvidenza ha dato fuoco, il proprietario ha trovato un immenso tesoro; sappiate che questo giovane al quale la Provvidenza ha torto il collo, avrebbe assassinato la zia entro un anno e voi entro due”.
“Chi te l’ha detto, barbaro?” gridò Zadig, “e anche qualora avessi letto questi avvenimenti nel tuo libro dei destini, ti è permesso di annegare un ragazzo che non ti ha fatto alcun male?”
Mentre il babilonese parlava, si accorse che il vegliardo non aveva più la barba, che il suo viso prendeva i lineamenti della giovinezza.
Il suo vestito da eremita scomparve; quattro belle ali coprivano un corpo maestoso e risplendevano di luce. “Oh messo del cielo! Oh angelo divino!” esclamò Zadig prosternandosi, sei dunque disceso dall’Empireo per insegnare ad un debole mortale a sottomettersi agli ordini eterni?”
“Gli uomini giudicano di tutto senza saper nulla: tu eri tra tutti gli uomini quello che meritava maggiormente di essere illuminato.”
Zadig gli chiese il permesso di parlare. “Diffido di me stesso” disse “ma oserei pregarti di chiarirmi un dubbio: non sarebbe stato meglio aver corretto questo ragazzo, rendendolo virtuoso, che di annegarlo?”
Jesrad riprese: “Se fosse stato virtuoso e se fosse vissuto il suo detino era di essere assassinato lui stesso con la donna che doveva sposare ed il figlio che doveva nascergli”.
“Ma come!” rispose Jesrad, “è dunque necessario che ci siano dei crimini e delle sventure? E le disgrazie capitano alle persone per bene!”
“I malvagi!, rispose Jasrad “sono sempre infelici: servono a mettere alla prova unpiccolo numero di giusti sparsi sulla terra e non vi è male da cui non nasca un bene.
“Ma” disse Zadig, “se non vi fosse che del bene e nulla di male?”
“Allora questo mondo sarebbe un altro mondo, la concatenazione degli eventi sarebbe un altro ordinamento di saggezza; e quest’ordinamento, che sarebe perfetto, non può esistere che nella dimora eterna dell’Essere Supremo, a cui il male non può avvicinarsi. Egli ha creato milioni di mondi, dei quali nessuno può assomigliare ad un altro.
Quest’immensa varietà è un attributo della sua immensa potenza.
Non vi sono due foglie d’albero sulla terra, né due globi nelle distese infinite del cielo, che si somiglino, e tutto ciò che tu vedi sul piccolo atomo dove sei nato deve essere nel suo posto e nei suoi tempi fisso, secondo la legge immutabile di colui che comprende tutto.
Gli uomini pensano che questo ragazzo che è appena morto sia caduto nell’acqua per disgrazia, che sempre per un caso quella casa sia bruciata: ma non è un caso; tutto è una prova, o punizione o ricompensa o prevenzione.
Ti ricordi di quel pescatore che si credeva il più infelice tra gli uomini? Orosmade ti ha inviato per cambiare il suo destino. Debole mortale! Smetti di combattere contro colui che bisogna adorare.”
“Ma” disse Zadig...
Come disse “ma” l’angelo prendeva già il suo volo verso la decima sfera.
Zadig in ginocchio adorò la Provvidenza e si sottomise. L’angelo gli gridò dall’alto del cielo: “Prendi il tuo cammino verso Babilonia!”
Capitolo 19 - I tornei
Capitolo 19
I tornei
Babilonia sembrava allora più tranquilla. Il principe d’Ircania era stato ucciso in battaglia. I babilonesi vincitori dichiararono che Astarte avrebbe sposato colui che avrebbero scelto come sovrano. Non volevano che il posto più importante al mondo, che sarebbe quello di marito di Astarte e di re di Babilonia, dipendesse dagli intrighi e dal caso.
Giurarono quindi di riconoscere come re il più valoroso ed il più saggio.
Un grande recinto, circondato da gradinate magnificamente addobbate, venne costruito ad alcune leghe dalla città.
I combattenti vi si dovevano recare armati di tutto punto. Ciascuno di essi aveva un alloggiamento separato, dove non doveva essere né visto né riconosciuto da nessuno. Bisognava affrontare quattro tenzoni. Coloro che fossero stati così fortunati da sconfiggere quattro cavalieri, avrebbero poi dovuto combattere gli uni contro gli altri, di modo che colui che fosse rimasto ultimo padrone del campo, sarebbe stato proclamato vincitore del torneo.
Sarebbe quindi dovuto ritornare quattro giorni dopo con le stesse armi, e risolvere gli enigmi che gli avrebbero sottoposto i magi. Se non avesse decifrato gli enigmi, non sarebbe diventato re e sarebbero ricominciate le giostre, fin quando non si fosse trovato un uomo che risultasse vincitore nelle due competizioni, poiché volevano assolutamente come re il più valoroso ed il più saggio.
La regina, durante tutto questo tempo, doveva essere strettamente sorvegliata: le sarebbe stato permesso solamente di assistere ai giochi, coperta da un velo, ma non le sarebbe stato permesso di parlare a nessuno dei pretendenti, di modo che non ne derivasse né favore né ingiustizia.
Questo Astarte fece sapere al suo amante, sperando che quegli si mostrasse per lei più valoroso ed intelligente di chiunque altro.
Egli partì e pregò Venere di rinsaldare il suo coraggio ed illuminare la sua mente.
Arrivò sulle rive dell’Eufrate alla vigilia del gran giorno. Fece iscrivere le sue insegne tra quelle dei combattenti, nascondendo il suo volto ed il nome, come prescritto dalle regole, ed andò a riposarsi nell’alloggio che gli era toccato in sorte.
Il suo amico Cador, che era tornato a Babilonia, dopo averlo cercato inutilmente in Egitto, fece portare nella sua tenda un’armatura completa che la regina gli aveva inviato. Gli fece inoltre condurre, sempre da parte sua, il più bel cavallo di Persia.
Zadig riconobbe Astarte in quei regali: il suo coraggio ed il suo amore ne trassero nuove forze e nuove speranze.
Quando l’indomani la regina si fu posta sotto un baldacchino cosparso di pietre preziose e le gradinate furono piene di tutte le dame e di tutte le classi Babilonia, i combattenti apparsero nel circo.
Ciascuno mise la sua insegna ai piedi del Gran Sacerdote. Furono tirate a sorte le insegne; quella di Zadig fu l’ultima. La prima era quella di un nobile molto ricco, di nome Itobad, molto vanitoso, poco coraggioso, piuttosto inetto e privo di cervello. I suoi domestici l’avevano convinto che un uomo come lui doveva essere re; lui aveva risposto loro: “Un uomo come me deve regnare”, l’avevano così armato da capo a piedi. Indossava un’armatura d’oro dipinta di verde, un pennacchio verde, una lancia decorata con nastri verdi.
Ci si accorse subito, dal modo in cui Itobad conduceva il proprio cavallo, che non era ad un uomo come lui che il cielo riservava lo scettro di Babilonia.
Il primo cavaliere che corse contro di lui lo disarcionò; il secondo lo ribaltò sulla groppa del suo cavallo, con le gambe all’aria e le braccia distese. Itobad si rialzò, ma così sgraziatamente che tutte le gradinate si misero a ridere.
Un terzo non si degnò neanche di usare la lancia, ma con un affondo, lo prese per la gamba destra e facendogli fare mezzo giro, lo fece cadere sulla sabbia: gli scudieri del torneo accorsero ridendo e lo rimisero in sella.
Il quarto avversario lo afferra per la gamba sinistra e lo fa cadere dall’altro lato.
Fu portato tra sberleffi alla sua tenda, dove, in base alle regole, avrebbe dovuto passare la notte; e diceva camminando a malapena: “che avventura per un uomo come me!”
Gli altri cavalieri eseguirono meglio il loro compito. Ve ne furono alcuni che vinsero due combattimenti di fila, alcuni arrivarono fino a tre. Solamente il principe Otame ne vinse quattro. Infine Zadig gareggiò a sua volta: disarcionò quattro cavalieri di seguito con tutta l’eleganza possibile.
Bisognava dunque vedere chi avrebbe vinto tra Otama e Zadig.
Il primo indossava delle armi blu ed oro, con un pennacchio uguale, quelle di Zadig erano bianche.
I favori di tutti erano divisi tra il cavaliere blu ed il cavaliere bianco: La regina, a cui il cuore palpitava, alzava delle preghiere al cielo per il colore bianco.
I due campioni fecero affondi e schivate con tale agilità, portarono così bei colpi, erano cos’ saldi in arcione che tutti, fuorché la regina, desideravano che ci fossero due re a Babilonia.
Infine, essendo ormai i cavalli stanchi e le lance rotte, Zadig usò la destrezza: passò dietro al principe blu, si slanciò sulla groppa del suo cavallo, lo afferrò a netà del corpo, lo gettò a terra, si mise in sella al suo posto, e caracollò attorno ad Otame disteso.
Tutto il pubblico gridò: “Vittoria al cavaliere bianco!” Otama, indignato si rialza, estrae la spada; Zadig salta giù dal cavallo, sciabola in pugno. Eccoli entrambi sull’arena, intenti ad un nuovo duello, in cui la forza e l’agilità trionfano di volta in volta.
Le piume dei loro elmi, le piastre dei bracciali, le maglie delle loro armature saltano lontano sotto mille colpi precipitosi. Colpiscono di punta e di taglio, a destra, a sinistra, sulla testa, sul petto; indietreggiano, avanzano, si fronteggiano, si riuniscono, si afferrano, ripiegano come serpenti, si assaltano come leoni; scintille brillano ogni momento per i colpi che si portano. Infine Zadig, avendo per un momento ripreso lucidità, finta, affonda su Otame, lo fa cadere, lo disarma, ed Otama esclama: “Oh cavaliere bianco! Siete voi a dover regnare su Babilonia”. La regina era al settimo cielo. Il cavaliere blu ed il cavaliere bianco furono ricondotti ciascuno alla sua tenda, come tutti gli altri, come previsto dal regolamento.
Due muti vennero a servirli e a portargli da mangiare. Potete immaginare se non fu proprio il muto della regina a servire Zadig.
Quindi furono lasciati dormire da soli fino al mattino dopo, quando il vincitore avrebbe dovuto portare le proprie insegne al gran sacerdote per farsi riconoscere.
Zadig dormì, benché innamorato, tanto era stanco.
Itobad, che era sdraiato accanto, non dormì affatto. Si alzò durante la notte, entrò nella tenda, prese le armi bianche di Zadig con le sue insegne, e mise al loro posto la sua armatura verde. Giunta l’alba, egli si recò fieramente dal gran sacerdote, a dichiarare che un uomo come lui era il vincitore.
Non se lo aspettavano: ma fu proclamato mentre Zadig dormiva ancora.
Astarte sorpresa e con la disperazione nel cuore, se ne tornò a Babilonia.
Tutte le gradinate erano oramai pressoché vuote quando Zadig si svegliò; cercò le sue armi e trovò solamente quell’armatura verde.
Fu obbligato ad indossarla, non avendo altro con lui. Sorpreso ed indignato la indossa con rabbia e procede in quell’equipaggiamento.
Tutti coloro che erano ancora sulle gradinate e nel circo lo ricevono con sberleffi. Lo circondarono e lo insultarono in faccia. Mai uomo subì delle mortificazioni tanto umilianti. Gli sfuggì la pazienza; allontanò a colpi di sciabola la popolazione che osava oltraggiarlo: ma non sapeva che partito prendere. Non poteva vedere la regina; non poteva reclamare l’armatura bianca che lei gli aveva inviato; avrebbe potuto comprometterla: e così, quanto lei era piombata nel dolore, tanto lui era pervaso dalla rabbia e dall’agitazione.
Se ne andò lungo le rive dell’Eufrate, convinto che la sua stella lo destinava ad essere infelice senza scampo, ripercorrendo con la mente tutte le disgrazie dall’avventura della donna che odiava i guerci fino a quella dell’armatura.
“”Ecco cosa è successo” si diceva, “per essermi svegliato troppo tardi; se avessi dormito meno ora sarei re di Babilonia ed avrei Astarte. Le scienze, i buoni costumi, il coraggio, sono serviti solo alla mia sfortuna”. Gli scappò anche di mormorare contro la Provvidenza e fu tentato di credere che tutto era governato da un destino crudele che perseguita i buoni e che fa prosperare i cavalieri verdi.
Uno dei suoi rammarichi era di dover portare quell’armatura verde che gli aveva attirato tante ingiurie. Passò un mercante, gliela vendette a basso prezzo e prese dal mercante una veste ed un berretto .lungo
Così vestito, costeggiava l’Eufrate pieno di scoramento, ed accusando in segreto la Provvidenza che lo perseguitava sempre.
Capitolo 18 - Il basilisco
Capitolo 18
Il basilisco
Si prese la libertà di avvicinarne una e di chiederle se poteva avere l’onore di aiutarle nelle loro ricerche.
“Guardatevene bene!”, gli rispose la siriana,”quello che stiamo cercando non può essere toccato che da donne.”
“Certo è molto strano”, disse Zadig, “e potrei osare chiedervi di spiegarmi cosa è che solo alle donne è permesso di toccare?2
“E’ un basilisco” disse quella.
“Un basilisco mia signora! E per quale ragione, di grazia, cercate un basilisco?”
“E’ per il nostro signore e padrone Ogul, di cui potete vedere il castello sulla riva di questo fiume, in fondo al prato. Noi siamo le sue umilissime schiave, il signor Ogul è malato; il suo medico gli ha prescritto di mangiare un basilisco cotto nell’acqua di rose e poiché è un animale molto raro e che non si lascia mai catturare altro che da donne, il nobile Ogul ha promesso di scegliere per moglie preferita quella di noi che gli avesse portato un basilisco: lasciatemi cercare, per favore, perché vedete bene quanto mi verrebbe a costare essere preceduta da qualcuna delle mie compagne”.
Zadig lasciò questa siriana e le altre a cercare il loro basilisco e continuò a camminare nel prato.
Quando giunse sulla riva di un piccolo ruscello, vi trovò un’altra dama sdraiata sull’erba e che non cercava nulla. La sua taglia appariva maestosa, ma il viso era coperto da un velo.
Era piegata verso il ruscello e dei profondi sospiri le uscivano dalla bocca.
Teneva in mano una piccola bacchetta, con cui tracciava delle lettere sulla sabbia fine che si trovava tra il prato ed il ruscello.
Zadig ebbe la curiosità di vedere cosa scriveva la donna; si avvicinò e vide la lettera Z, poi una A; rimase sbalordito; poi comparve una D; trasalì. Mai sorpresa fu uguale alla sua quando vide le due ultime lettere del suo nome.
Rimase qualche tempo immobile: infine rompendo il silenzio con voce rotta: “Oh generosa signora! Perdonate ad uno straniero, ad uno sventurato, di osare chiedervi per quale incredibile fatalità vedo qui il nome di ZADIG tracciato dalla vostra mano divina?
A questa voce, a queste parole, la dama sollevò il velo con una mano tremante, guardò Zadig, gettò un grido di commozione, di sorpresa e di gioia e arrendendosi a tutte le diverse emozioni che assalivano tutte in una volta la sua anima, cadde svenuta tra le sue braccia.
Era Astarte in persona, la regina di Babilonia, colei che Zadig adorava e che si rimproverava di adorare; era colei per la cui sorte aveva tanto pianto e temuto.
Per un momento fu privo dell’uso dei sensi e quando; e quando ebbe fissato il suo sguardo sugli occhi di Astarte, che si riaprivano con un languore misto a confusione e tenerezza: “Oh potenze immortali!” esclamò, “che presiedete ai destini dei denoli umani, mi restituite Astarte? In che momento, in quale luogo ed in quale stato la ritrovo?”
Si gettò in ginocchio davanti ad Astarte e poggiò la fronte sulla polvere dei suoi piedi.
La regina di Babilonia lo fa alzare e lo fa sedere accanto a lei sulla riva di quel ruscello; asciugava a più riprese i suoi occhi da cui le lacrime riprendevano continuamente a scendere.
Riprendeva venti volte i discorsi che i gemiti le interrompevano; lo interrogava sul fato che li ricongiungeva ed anticipava subito le risposte con altre domande, cominciava la narrazione delle sue sventure e voleva conoscere quelle di Zadig. Alla fine, avendo entrambi un poco placato i tumulti dei loro animi, Zadig le raccontò in poche parole per quale fatalità si trovava su quel prato.
“Ma, o sfortunata e rispettabile regina! Perché vi ritrovo in questo luogo appartato, vestita da schiava, ed in compagnia di altre donne schiave che cercano un basilisco per farlo cuocere nell’acqua di rose su ordine di un medico?”
“Mentre loro cercano il loro basilisco” disse la bella Astarte, “vi racconterò tutto ciò che ho sofferto e tutto ciò che perdono al cielo dal momento in cui vi ho rivisto. Voi sapete che il re mio marito ritenne un male che voi foste il più amabile tra tutti gli uomini e che fu per questo motivo che, una notte, prese la decisione
di farvi strangolare e di avvelenarmi.
Sapete come il cielo permise che il mio piccolo muto mi avvertisse dell’ordine della sua sublime maestà. Appena il fedele Cador vi ebbe costretto
ad obbedirmi ed a partire, osò entrare in casa mia nel mezzo della notte da un’apertura segreta. Mi prese e mi condusse nel tempio di Orosmade, dove il sacerdote, suo fratello mi chiuse dentro una statua colossale la cui base tocca le fondamenta del tempio e di cui la testa ne raggiunge la volta.
Rimasi lì, come sepolta, ma servita dal sacerdote e non mancando di nessuna cosa necessaria. Nel frattempo, sul far del giorno, il farmacista di sua maestà entrò nella mia camera con una pozione composta di giusquiamo, oppio, cicuta, elleboro nero e di aconito mentre un altro ufficiale si recò a casa vostra con un laccio di seta blu. Non trovarono nessuno. Cador per raggirare meglio il re, finse di andarci a denunciare.
Disse che voi avevate preso la via delle Indie ed io quella di Menfi: furono inviati dei sicari all’inseguimento mio e vostro.
Gli inviati che mi cercavano non mi conoscevano. Io non avevo quasi mai mostrato il mio viso se non a voi solo, in presenza e per ordine del mio sposo. Essi corsero al mio inseguimento, in base al ritratto che gli era stato fatto della mia persona: una donna della mia stessa taglia e che forse era più bella di me, si presentò ai loro occhi alla frontiera con l’Egitto.
Era piangente, vagante; non dubitarono che questa donna fosse la regina di Babilonia; la portarono a Moabdar.
Al loro equivoco il re venne dapprima preso da una collera violenta; ma ben presto, avendo considerato più da vicino questa donna, la trovò molto bella e ne fu consolato. Si chiamava missouf. Mi è stato detto poi che questo nome in egiziano significa “la bella capricciosa”. Ed in effetti lo era: ma aveva tanta arte quanto capricci. Ella piacque a Moabdar. Lo soggiogò a tal punto da farla dichiarare sua moglie. A quel punto il suo carattere si rilevò del tutto: si lasciò andare senza timori a tutte le follie della sua immaginazione. Volle obbligare il capo dei magi, che era vecchio e gottoso, a danzare dinanzi a lei; ed al suo rifiuto, lo punì con violenza. Ordinò al suo scudiero di prepararle una torta di marmellata. Il gran-scudiero ebbe un bel dire che lui non era pasticcere, dovette fare la torta e fu cacciato perché era troppo cotta.
Diede quindi la carica di gran-scudiero al suo nano ed il posto di cancelliere ad un paggio. Fu così che governò Babilonia.
Tutti mi rimpiangevano. Il re che era stato un uomo assai onesto fino al momento in cui aveva voluto far avvelenare me e strangolare voi, sembrava aver annegato le sue virtù nell’amore prodigioso che nutriva per la bella capricciosa. Venne al tempio il gran giorno della consacrazione del fuoco. Lo vidi implorare gli dèi per Missouf ai piedi della statua dove ero rinchiusa. Alzai la voce e gli gridai: - Gli dèi rifiutano le preghiere di un re divenuto tiranno, che ha voluto fa morire una moglie di buon senso per sposarne una stravagante.- Moabdar fu sconvolto da queste parole al punto da perdere la testa. L’oracolo che gli avevo annunciato e la tirannia di Missouf furono sufficienti a farlo uscire di senno. In pochi giorni divenne pazzo. La sua pazzia che sembrò un castigo del cielo, fu il segnale della rivolta. Ci fu un’insurrezione, corsero alle armi. Babilonia, per lungo tempo caduta in una mollezza oziosa, divenne il teatro di una terribile guerra civile.
Fui tirata fuori dalla cavità della statua e messa alla testa di un partito. Cador corse a Menfi per ricondurvi a Babilonia. Il principe d’Ircania, apprendendo queste notizie funeste, venne con la sua armata a costituire un terzo partito in Persia. Attaccò il re che corse davanti a lui con la sua stravagante egiziana. Moabdar morì crivellato di colpi. Missouf cadde nelle mani del vincitore.
Sfortuna volle che anch’io venissi catturata da un drappello ircaniano e condotta davanti al principe precisamente nel momento in cui vi conducevano Missouf. Sarete senza dubbio lieto di sapere che il principe mi trovò più bella dell’egiziana, sarete però dispiaciuto di apprendere che mi destinò al suo harem. Mi disse molto risolutamente che, non appena termina una spedizione militare che stava per intraprendere, sarebbe venuto da me. Giudicate il mio dolore. I miei legami con Moabdar erano rotti, avrei potuto essere di Zadig ed invece cadevo nelle catene di quel barbaro! Gli risposi con tutta la fierezza che mi derivava dal rango e dai miei sentimenti. Avevo sempre sentito dire che il cielo associava alle persone della mia sorte un certo qual fare solenne, che con una parola o con un’occhiata faceva rientrare nella deferenza del più profondo rispetto i temerari che osavano discostarsene. Parlai da regina ma fui trattata da serva. L’ircaniano, senza degnarsi di rivolgermi in alcun modo la parola, disse al suo eunuco nero che ero un’impertinente ma che mi trovava graziosa. Gli ordinò di prendersi cura di me e di mettermi a dieta con le favorite, allo scopo di ravvivarmi il colorito e di rendermi più degna dei suoi favori, per il giorno in cui avrebbe avuto la compiacenza di onorarmene. Gli dissi che mi sarei uccisa: egli replicò, ridendo, che non si sarebbe ucciso nessuno, che lui era fatto così e mi lasciò come un uomo che ha appena messo un pappagallo nel suo serraglio.
Che situazione per la più grande regina di tutto l’universo e, aggiungerei, per un cuore che era di Zadig!”
A queste parole egli si gettò sulle sue ginocchia e le bagnò di lacrime. Astarte lo fece sollevare teneramente e continuò così: “Mi vedevo dunque in potere di un barbaro e rivale di una pazza con la quale ero stata rinchiusa. Questa mi narrò la sua avventura in Egitto. Io indovinai, dai tratti con cui vi descriveva, dal momento, dal dromedario sul quale voi eravate montato, da tutte le circostanze, che era stato Zadig a combattere per lei. Io non dubitai che voi foste a Menfi e presi la risoluzione di recarmici.
- Bella Missouf - le dissi – voi siete molto più bella di me, divertirete molto meglio di me il principe d’Ircania. Aiutatemi a mettermi in salvo; voi regnerete da sola; mi renderete felice
sbarazzandovi di una rivale. Missouf concertò con me le modalità della mia fuga.
Me ne andai quindi segretamente con una schiava egiziana.
Ero oramai nei pressi dell’Arabia quando un famoso predone, di nome Arbogad, mi rapì e mi vendette a dei mercanti che mi hanno condotta in questo castello dove risiede il nobile Ogul.
Egli mi ha comprata senza sapere chi fossi.
E’ un uomo vizioso pensa solo a fare banchetti e che crede che Dio l’abbia messo al mondo solamente per stare a tavola.
Egli è eccessivamente obeso, quasi sul punto di soffocare. Il suo dottore, che non gode di alcun credito presso di lui quando egli digerisce bene, lo comanda dispoticamente quando ha mangiato troppo. Lo ha persuaso che guarirà con un basilisco cotto nell’acqua di rose. Il nobile Ogul ha promesso la sua mano a colei tra le schiave che gli porterà un basilisco. Vedete che lascio che si accalchino per meritarsi tale onore ed io non ho mai avuto minor voglia di trovare questo basilisco, soprattutto da quando il cielo ha permesso che vi rivedessi.”
Astarte e Zadig di dissero allora tutto ciò che i sentimenti per così lungo tempo trattenuti, che le loro sventure ed il loro amore potevano inspirare a cuori così nobili e commossi; gli spiriti che governano l’amore condussero le loro parole fino alla sfera di Venere. Le donne rientrarono da Ogul senza aver trovato nulla. Zadig gli si fece presentare e gli parlò in questi termini: “Che la salute immortale discenda dal cielo per avere cura di tutti i vostri giorni! Io sono medico e sono da voi accorso alla notizia della vostra malattia e vi ho portato un basilisco cotto nell’acqua di rose. Non pretendo però di sposarvi: vi chiedo solamente la libertà di una giovane schiava di Babilonia che voi possedete da alcuni giorni e vi chiedo di prendere me al suo posto come schiavo se non sarò in grado di guarire il magnifico e nobile Ogul.”
La proposta fu accettata. Astarte partì per Babilonia con il domestico di Zadig, promettendogli di inviargli immediatamente un messaggero per tenerlo al corrente di tutti gli avvenimenti.
Il loro commiato fu altrettanto tenero quanto lo era stato il loro riconoscimento.
Il momento in cui ci si ritrova e quello in cui ci si separa sono le principali circostanze della vita, come dice il grande libro di Zend. Zadig amava la regina tanto quanto lo giurava, e la regina amava Zadig più di quanto non gli dicesse.
Quindi Zadig parlò ad Ogul in questi termini: “Signore, non mangiate il mio basilisco, tutta la sua forza deve entrare in voi attraverso i pori. L’ho messo in un piccolo otre, ben gonfio e coperto di una fine pellicola: ora occorre che voi lanciate quest’otre con tutta la vostra forza e che io ve lo rimandi per varie volte; in pochi giorni di questo programma vedrete cosa può il mio metodo.”
Ogul il primo giorno rimase senza fiato e credette di morire di fatica. Il secondo fu meno stanco e dormì meglio. In otto giorni recuperò tutte le sue forze, la salute, la leggerezza e la gaiezza dei suoi anni migliori.
“Avete giocato a palla e siete rimasto sobrio” gli disse Zadig, ”sappiate che non vi sono basilischi in natura, che ci si sente sempre bene con sobrietà ed esercizio fisico e che l’arte di far coesistere intemperanza e salute è tanto chimerica quanto la pietra filosofale, l’astrologia giudiziaria, e la teologia dei magi.”
Il primo medico di Ogul, sentendo quanto fosse pericoloso quell’uomo per la medicina, si unì al farmacista per inviare Zadig a cercare basilischi all’altro mondo. Così, dopo essere sempre stato punito per aver fatto bene, era sul punto di morire per aver guarito un nobile goloso.
Fu invitato ad un pranzo squisito.
Doveva essere avvelenato alla seconda portata ma ricevette un messaggero dalla bella astarte alla prima. Abbandonò la tavola e partì. Quando si è amati da una bella donna, dice il grande Zoroastro, ci si trae sempre d’impaccio a questo mondo.
Capitolo 17 - Il pescatore
Capitolo 17
Il pescatore
Vide un pescatore sdraiato sulla riva, che teneva appena con mano debole la sua rete, come sul punto di abbandonarla, ed alzava gli occhi al cielo.
“Sono certamente il più infelice tra tutti gli uomini”, diceva il pescatore,”Sono stato, per ammissione di tutti, il più celebre mercante di formaggi alla crema di Babilonia, e sono caduto in rovina. Avevo la moglie più bella che si potesse avere, e mi ha tradito. Mi era rimasta una misera casetta, e l’ho vista saccheggiata e distrutta. Rifugiato in una capanna, non ho altre risorse che la pesca, e non prendo neanche un pesce. O rete mia! Non ti getterò più nell’acqua, ora tocca a me gettarmi”. E nel dire queste parole si alza ed avanza con l’atteggiamento di un uomo che stava per buttarsi e mettere fine alla sua vita.
“Come sarebbe” disse tra sé e sé Zadig,”ci sono dunque uomini infelici quanto me!”
L’impulso di salvare la vita al pescatore fu immediato quanto quella considerazione.
Si precipitò da lui, lo fermò, lo interrogò con fare tenero ed incoraggiante.
Sembra che ci si senta meno infelici quando non si è soli: ma, secondo Zoroastro, non è per cattiveria, bensì per bisogno. Ci si sente allora trasportati verso uno sfortunato come verso un nostro simile.
La gioia di un uomo felice sarebbe un insulto; ma due infelici sono come due deboli alberelli che, appoggiandosi l’uno all’altro, si fanno forza contro il temporale.
“Perché vi arrendete alle vostre disgrazie?” disse Zadig al pescatore.
“Perché” rispose quello”non vedo più alcuna possibilità. Ero il più stimato del villaggio di Derlback, vicino Babilonia, e fabbricavo, con l’aiuto di mia moglie, i migliori formaggi alla crema dell’impero. La regina Astarte ed il famoso ministro Zadig li amavano appassionatamente. Avevo fornito alle loro case seicento formaggi. Mi recai un giorno in città per essere pagato; giunto a Babilonia venni a sapere che la regina e Zadig erano scomparsi. Corsi fino alla casa del nobile Zadig, che non avevo mai visto e vi trovai gli arcieri del Gran Desterham, che, provvisti di un mandato reale, saccheggiavano la sua casa con lealtà ed ordinatamente. Volai alle cucine della regina; alcuni dei signori della bocca mi disse che era morta; altri dissero che era in prigione; altri pretendevano che fosse fuggita; ma tutti mi assicurarono che non mi avrebbero pagato i miei formaggi.
Mi recai, dunque, con mia moglie, dal nobile Orcan, che era uno dei miei clienti abituali: implorammo la sua protezione in una tale disgrazia. Egli l’accordò a mia moglie ma la rifiutò a me. Lei era più candida di quei formaggi alla crema che avevano dato inizio alla mia sventura e lo splendore della porpora di Tiro non era più brillante dell’incarnato che animava il suo candore. Questo fece sì che Orcan trattenesse lei e cacciasse invece me dalla sua abitazione.
Scrissi allora alla mia amata moglie la lettera di un disperato. Lei disse al messaggero: - Ah, ah! Si! So chi è l’uomo che mi ha scritto, ne ho sentito parlare: dicono che faccia degli eccellenti formaggi alla crema; portatemene pure, e che gli siano pagati. – Nella mia disgrazia decisi di rivolgermi alla Giustizia.
Mi rimanevano sei once d’oro: ne dovetti dare due all’uomo di legge che consultai, due al procuratore che si fece carico del mio affare,
due al segretario del primo giudice.
Fatto tutto ciò, il mio processo non era ancora cominciato ed avevo già speso più denaro di quanto non valessero i miei formaggi e mia moglie. Feci ritorno al mio villaggio con l’intenzione di vendere la mia casa per riavere mia moglie.
La mia casa valeva almeno sessanta once d’oro, ma ero povero e costretto a vendere. Il primo a cui mi rivolsi mi offrì trenta once d’oro; il secondo venti ed il terzo dieci. Ero infine pronto a concludere, tanto ero accecato, quando un principe d’Ircania giunse a Babilonia e distrusse tutto sul suo passaggio. La mia casa fu dapprima saccheggiata e quindi data alle fiamme.
Perduti così denaro e moglie, mi ritirai in questo paese dove ora mi vedete; ho cercato di sopravvivere facendo il pescatore. I pesci si prendono gioco di me come gli uomini; non prendo nulla, muoio di fame e senza di voi, mio nobile consolatore, sarei morto nel fiume.”
Il pescatore non fece questo discorso tutto di seguito, poiché in ogni momento Zadig, attonito ed impaziente, gli diceva: “Ma allora! non sapete nulla della sorte della regina?” “No Signore”, rispondeva il pescatore, “ma so che la regina e Zadig non hanno pagato i miei formaggi alla crema, che hanno preso mia moglie e che sono alla disperazione”. “Sono certo”, disse Zadig, ”che non perderete tutto il vostro denaro. Ho sentito parlare di questo Zadig: è un uomo onesto, e se ritornerà a Babilonia come spera, vi darà più di quanto vi deve; ma per quanto riguarda vostra moglie, che non è altrettanto onesta, vi consiglio di non tentare di riaverla. Datemi retta, andate a Babilonia; vi giungerò prima di voi, poiché io sono a cavallo e voi a piedi. Recatevi dall’illustre Cador; ditegli che avete incontrato un suo amico ed aspettatemi presso di lui, andate; forse non sarete infelice per sempre. O potente Orosmade!”, continuò, ”vi servite di me per consolare quest’uomo; di chi vi servirete per consolare me?”
E così dicendo, diede al pescatore metà del denaro che aveva portato dall’Arabia, ed il pescatore, confuso ed estasiato, baciava i piedi dell’amico di Cador e diceva: “Voi siete un angelo salvatore.”
Tuttavia Zadig continuava a chiedere notizie ed a versare lacrime.
“Ma come signore!” esclamò il pescatore,”voi sareste così infelice, proprio voi che fate del bene?”
“Cento volte più infelice di te”, rispose Zadig.
“Ma come può essere che colui che deona sia più da compiangere di colui che riceve?”
“Il fatto è che la tua maggiore disgrazia”, rispose Zadig, “è la miseria, mentre io sono ferito nel cuore.”
“Orcan si è forse preso vostra moglie?” disse il pescatore.
Queste parole richiamarono alla mente di Zadig tutte le sue avventure; ripeteva la lista delle sue disgrazie, a cominciare dalla cagna della regina fino al suo arrivo nel covo del brigante Arbogad.
“Ah!” disse al pescatore, “Orcan merita di essere punito. Ma normalmente è proprio quel tipo di gente che è favorito dalla fortuna. Comunque sia vai dal nobile Cador ed aspettami.” Si separarono, il pescatore in marcia ringraziando per il proprio destino e Zadig al galoppo maledicendo il suo.
mercoledì 20 aprile 2011
Capitolo 16 - Il brigante
Capitolo 16
Il brigante
Arrivando alla frontiera che separa l’Arabia Petrea dalla Siria, appena passò accanto ad un castello ben fortificato, degli arabi armati ne uscirono. Si vide circondato; gli gridarono: “Tutto ciò che avete ci appartiene e la vostra persona appartiene al nostro padrone”. Zadig, in risposta, estrasse la spada; il suo valletto, che aveva coraggio, fece altrettanto. Colpirono a morte i primi arabi che avevano messo le mani su di loro, il numero raddoppiò, ma essi non si spaventarono, risoluti a morire combattendo.
Due uomini si difendevano contro una moltitudine: un tale combattimento non poteva durare a lungo. Il padrone del castello, di nome Arbogad, avendo osservato da una finestra i prodigi di valore che compiva Zadig, provò ammirazione per lui. Discese in fretta ed andò lui stesso ad allontanare i suoi uomini ed a liberare i due viaggiatori. “Tutto ciò che passa sulle mie terre mi appartiene”, disse, “come anche ciò che trovo sulle terre altrui; ma voi mi sembrate un uomo così coraggioso che vi esento dalla regola comune”. Lo fece entrare nel suo castello, ordinando ai suoi uomini di trattarlo bene; e la sera Arbogad volle cenare con Zadig.
Il signore del castello era uno di quegli arabi chiamati predoni, ma talvolta compiva delle azioni buone in mezzo ad una moltitudine di azioni malvagie; rapinava con una rapacità furiosa e regalava con generosità: intrepido nell’azione, molto gentile nel commercio, dissoluto a tavola, allegro nella dissolutezza e soprattutto estremamente schietto.
Zadig gli piacque molto; la sua conversazione si animò e fece durare a lungo il pasto: infine Arbogad gli disse: “Vi consiglio di arruolarvi tra i miei, non potreste fare di meglio; questo mestiere non è malvagio; potreste un giorno diventare come me”.
“Posso chiedervi”, disse Zadig, “da quanto tempo esercitate questa nobile professione?”
“Dalla mia più tenera età”, rispose il signore, “ero valletto di un arabo molto abile; il mio stato mi era insopportabile. Ero preso dalla disperazione nel constatare che, in tutta la terra che appartiene in egual misura a tutti gli uomini, la sorte non aveva riservato una parte per me. Confidai le mie pene ad un vecchio arabo che mi disse: - Figlio mio non disperare; c’era una volta un granello di sabbia che si lamentava di esser un atomo negletto nel deserto; di lì ad alcuni anni era divenuto un diamante ed ora è il più bell’ornamento della corona del re delle Indie -. Questo discorso mi fece impressione, io ero il granello di sabbia, decisi di diventare un diamante. Cominciai con il rubare due cavalli; mi aggregai a dei compari; mi misi in condizione di derubare delle piccole carovane e così a poco a poco misi fine alla sproporzione che inizialmente vi era tra me e gli altri uomini. Ebbi la mia parte dei beni di questo mondo e fui persino ricompensato in eccesso: fui molto considerato; divenni capo brigante; mi appropriai di questo castello per vie di fatto. Il satrapo della Siria voleva sottrarmelo ma ero oramai troppo ricco per avere nulla da temere; diedi del denaro al Satrapo, a condizione di conservare il castello ed ingrandire i miei domini; mi nominò anche tesoriere dei tributi che l’Arabia Petrea pagava al re dei re.
Svolsi il mio compito di esattore ma non quello di pagatore.
Il Gran Desterham di Babilonia inviò sin qui, in nome del re Moabdar, un piccolo satrapo per farmi strangolare.
Quest’uomo arrivò con il suo mandato: io ero già al corrente di tutto, feci strangolare in sua presenza le quattro persone che aveva portato con lui per stringere il laccio; dopo di ciò gli chiesi quanto valeva per lui l’incarico di strangolarmi. Quegli mi rispose che il suo onorario potevano arrivare a trecento pezzi d’oro.
Gli feci capire chiaramente che con me avrebbe potuto guadagnare molto di più. Lo nominai sotto-ladrone; oggi lui è uno dei miei migliori ufficiali ed uno dei più ricchi.
Se mi date retta, avrete successo come lui.
Non c’è mai stato un periodo migliore per rapinare, da quando il re Moabdar è stato ucciso e il caos regna in Babilonia.”
“Moabdar è stato ucciso!” disse Zadig; “e cosa ne è stato della regina Astarte?”
“Non ne so nulla” rispose Arbogas,” tutto quello che so è che Moabdar è impazzito ed è stato ucciso, che Babilonia è una carneficina, che tutto l’impero è desolato, che ci sono dei bei colpi ancora da fare e che da parte mia ne ho già fatti di notevoli”.
“Ma la regina”, disse Zadig, “non sapete niente della sorte della regina?”
“Mi hanno parlato di un principe di Ircania” rispose quello, “probabilmente è tra le sue concubine, se non è stata uccisa nei tumulti; ma io sono più curioso di bottino che di notizie. Ho preso molte donne durante le mie scorrerie, non ne tengo nessuna, le vendo a caro prezzo quando sono ancora belle, senza informarmi di chi siano. Non si acquista il lignaggio; una regina brutta non troverà un mercante; forse ho venduto io la regina Astarte, o forse è morta, ma poco importa, e penso che voi non dobbiate preoccuparvene più di me”.
Parlando così, beveva con un tale ardore, confondeva talmente tutte le idee, che Zadig non riuscì a trarne alcun chiarimento.
Restò interdetto, abbattuto, immobile. Arbogad beveva sempre, faceva dei conti, ripeteva senza sosta che lui era il più felice degli uomini, esortando Zadig a rendersi altrettanto felice.
Infine, stordito dai vapori del vino, andò a dormire di un sonno tranquillo.
Zadig passò la notte nell’agitazione più violenta.
“Ma come” diceva, “il re è impazzito! È stato ucciso! Non posso impedirmi di compiangerlo. L’impero è a pezzi e questo brigante è felice: oh Fortuna! Oh Destino! Un ladro è felice, e ciò che la natura ha creato di più amabile forse e morta in maniera orribile, oppure vive in una condizione peggiore della morte! Oh Astarte! Che ne è stato di voi?
Appena giorno interrogò tutti quelli che incontrò nel castello; ma tutti erano occupati, nessuno gli rispose: avevano fatto durante la notte delle nuove conquiste e se ne spartivano le spoglie.
Tutto ciò che riuscì ad ottenere in quella tumultuosa confusione, fu il permesso di andarsene. Ne approfittò senza tardare, più sprofondato che mai nelle sue dolorose riflessioni.
Zadig procedeva inquieto, agitato, l’animo tutto preso dalla sventurata Astarte, dal re di Babilonia, dal suo fedele Cador, dal felice brigante Arbogad, da quella donna capricciosa che dei babilonesi avevano rapito ai confini dell’Egitto, ed infine da tutti i contrattempi e da tutte le sventure che gli erano capitate.
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