mercoledì 31 marzo 2010

Capitolo 4 - L'Invidioso

Capitolo 4
L’invidioso
Zadig volle consolarsi, attraverso la filosofia e l’amicizia, delle sventure che gli aveva riservato la sorte.
Egli possedeva, in un sobborgo di Babilonia, una casa arredata con gusto, dove raccoglieva tutte le arti ed i piaceri degni di un uomo onesto.
Al mattino la sua biblioteca era aperta a tutti gli studiosi, alla sera lo era la sua tavola alla buona compagnia, ma ben presto dovette scoprire come sono pericolosi i sapienti: nacque infatti una grande disputa su di una legge di Zoroastro che proibiva di mangiare il Grifone.
“Come si può proibire il Grifone,” dicevano alcuni, “se non esiste?”
“Non può non esistere”, dicevano gli altri, “visto che Zoroastro proibisce di mangiarne”.
Zadig cercò di pacificarli dicendo loro: “Se ci fossero dei grifoni, non ne mangeremmo; se non ve ne fossero affatto, ne mangeremmo ancor meno e così obbediremmo tutti a Zoroastro”.
Un dotto che aveva scritto tredici volumi sulle qualità del Grifone e che in più era un grande esoterista, corse a denunciare Zadig dinanzi ad un arcimago di nome Yebòr, il più ottuso tra i Caldèi e di conseguenza il più fanatico.
Costui avrebbe fatto impalare Zadig per la maggior gloria del Sole ed avrebbe poi recitato il breviario di Zoroastro con maggior soddisfazione.
L’amico Cadòr (un amico vale più di cento sacerdoti) andò a trovare il vecchio Yebòr e gli disse:
“Viva il Sole ed i Grifoni! Guardatevi bene dal punire Zadig: egli è un santo; tiene infatti dei Grifoni nel suo cortile e non ne mangia mai; mentre il suo accusatore è un eretico che osa sostenere che i conigli hanno il piede diviso e non sono immondi.”
“Ebbene!” disse Yebòr scuotendo la testa calva, bisognerà impalare Zadig per aver pensato male dei Grifoni e l’altro per aver parlato male dei conigli.”
Cadòr risolse la questione grazie ad una fanciulla rispettabile, dalla quale aveva avuto un figlio, e che godeva di molto credito nel collegio dei magi: nessuno fu impalato e molti dei saggi ne ebbero a ridire, presagendo da ciò la decadenza di Babilonia.
Zadig esclamò: “Da cosa dipende la felicità! Tutti a questo mondo mi perseguitano, persino gli esseri che non esistono”. Maledisse i sapienti e decise di vivere solamente in buona compagnia.
Nella sua abitazione si riunivano le persone più oneste di Babilonia e le dame più amabili; offriva cene deliziose, spesso precedute da concerti ed animate da piacevoli conversazioni, dalle quali aveva saputo bandire la necessità di dar prova di arguzia, che è il modo più certo di non averne affatto e di rovinare la più brillante compagnia.
Né la scelta degli amici né quella delle pietanze era dettata da vanità giacché in tutto preferiva l’essere all’apparire, e grazie a ciò si guadagnava il più sincero rispetto, pur senza pretenderlo.
Di fronte alla sua abitazione abitava Arimaze, persona il cui aspetto grossolano era perfetta manifestazione del suo animo malvagio.
Era questi roso dall’invidia e gonfio d’orgoglio e in aggiunta, estremamente noioso: non essendo riuscito in nulla nel mondo, se ne vendicava parlandone male.
Sebbene fosse molto ricco, riusciva a malapena a circondarsi di adulatori.
Il rumore dei carri che alla sera entravano da Zadig l’infastidiva, quello delle lodi l’irritava ancor più.
Talvolta si recava da Zadig e si sedeva a tavola senza che vi fosse stato invitato, guastando tutta la spensieratezza della compagnia, come si dice che le Arpie infettino la carne che toccano.
Gli capitò un giorno di voler dare una festa in onore di una dama la quale, anziché accettare, si recò a cena da Zadig.
Un'altra volta, mentre parlava con Zadig nel palazzo, incontrarono un ministro che invitò a cena Zadig ma non Arimaze.
L’odio più implacabile ha spesso delle basi futili: quest’ uomo, che a Babilonia era detto l’Invidioso, decise di rovinare Zadig, perché era detto il Felice.
L’occasione di fare del male si trova cento volte al giorno, quella di fare del bene una volta l’anno, come dice Zoroastro.
L’invidioso si recò da Zadig, che passeggiava nei suoi giardini con due amici ed una dama, alla quale rivolgeva frequenti frasi galanti per il solo piacere di farlo.
La conversazione riguardava una guerra che il re aveva appena terminato vittoriosamente contro il principe di Ircania, suo vassallo. Zadig, che si era segnalato per valore durante questa breve guerra, lodava molto il re ed ancor più la dama.
Prese le sue tavolette, vi scrisse quattro versi che improvvisò sul momento e li fece leggere alla bella dama.
I suoi amici lo pregarono di metterli a parte: la modestia, o forse un giusto amor proprio glielo impedì. Sapeva infatti che dei versi improvvisati non sono mai belli se non per colei in onore della quale sono stati composti: spezzò pertanto le tavolette su cui aveva scritto e ne gettò le due parti in un cespuglio di rose dove vennero cercate inutilmente.
Si mise a piovere e rincasarono.
L’Invidioso, che era rimasto in giardino, tanto cercò che infine trovò un pezzo della tavoletta.
Questa si era spezzata in modo tale che ciascuna metà dei versi che riempiva una riga aveva un senso, ed era anche un verso più breve, ma, per un caso ancora più bizzarro, questi versi si trovarono a contenere le più tremende ingiurie contro il re; vi si leggeva:
Dai più grandi misfatti
rinsaldato sul trono
nella pace comune
è l’unico nemico
L’Invidioso fu felice per la prima volta in vita sua. Aveva tra le mani di che perdere un uomo virtuoso ed amabile.
Pieno di questa gioia crudele, fece giungere al re la satira scritta dalla mano di Zadig: lo misero in prigione, lui, i suoi due amici e la dama. Il suo processo venne presto fatto, senza che si degnassero di ascoltarlo.
Quando fu convocato per ricevere il verdetto, l’Invidioso si trovò sul suo passaggio e gli disse ben chiaro che i suoi versi non valevano nulla. A Zadig non dispiaceva di non essere un buon poeta, ma era disperato di essere condannato come colpevole di lesa maestà e di vedere che si trattenevano in prigione una bella dama e due amici per un crimine che non aveva commesso.
Non gli fu permesso di parlare giacché le sue tavolette parlavano per lui; tale era la legge in Babilonia.
Lo condussero al supplizio attraverso una folla di curiosi che non osava compatirlo e che si precipitava ad esaminare il suo viso per vedere se sarebbe morto con grazia. Solamente i suoi parenti apparivano afflitti giacché non avrebbero ereditato nulla. I tre quarti dei suoi beni infatti erano confiscati dal re ed il quarto rimanente sarebbe andato all’Invidioso.
Mentre si preparava a morire, il pappagallo del re fuggì dal suo balcone ed atterrò nel giardino di Zadig sora un cespuglio di rose.
Una pèsca di un albero vicino vi era stata trasportata dal vento ed era caduta sopra un frammento di tavoletta da scrittura alla quale era rimasta incollata.
L’uccello sollevò pèsca e tavoletta e le portò sulle ginocchia del monarca. Il principe, curioso, vi lesse delle parole che non avevano alcun senso e che sembravano la parte finale di alcuni versi. Egli amava la poesia e c’è sempre qualche risorsa con i principi che amano i versi: l’avventura del suo pappagallo lo fece fantasticare. La regina, che si ricordava di ciò che era scritto sul pezzo di tavoletta di Zadig, se la fece portare.
Vennero confrontate le due parti che corrispondevano perfettamente: lessero quindi i versi che Zadig aveva composto:
Dai più grandi misfatti ho visto minacciare il paese.
Rinsaldato sul trono il re sa gestire ogni cosa
Nella pace comune, solo l’amore è in guerra
è l'unico nemico che si debba temere
Il re ordinò subito che Zadig fosse condotto dinanzi a lui e che venissero liberati i suoi due amici e la bella dama. Zadig si gettò con il viso per terra ai piedi del re e della regina: domandò loro molto umilmente perdono per aver composto dei versi così brutti: parlò con una tale grazia, intelligenza e ragionevolezza che il re e la regina lo vollero rivedere. Egli tornò e piacque ancor di più. Gli furono donati tutti i beni dell’Invidioso che l’aveva ingiustamente accusato: ma Zadig restituì tutto e all’Invidioso rimase solamente il piacere di non perdere i suoi beni.
La stima del re per Zadig crebbe di giorno in giorno. Lo rendeva partecipe di tutti i suoi divertimenti e lo consultava per tutti gli affari.
La regina lo guardò da allora con una simpatia che avrebbe potuto diventare pericolosa per lei, per il suo augusto sposo, per Zadig e per il regno.
Zadig cominciò a pensare che non fosse poi così difficile essere felice.

Capitolo 3 - Il cane ed il cavallo

Capitolo 3
Il cane ed il cavallo
Zadig sperimentò che il primo mese di matrimonio, come sta scritto nel libro di Zend, è la luna di miele, e che il secondo è la luna d’assenzio.
Dopo qualche tempo fu costretto a ripudiare Azora, con cui era diventato troppo difficile vivere e cercò la sua tranquillità nello studio della natura.
“Nessuno è più felice” si diceva “di un filosofo che legge in questo grande libro che Dio ha posto dinanzi ai nostri occhi. Le verità che scopre gli appartengono: nutre ed eleva il proprio spirito, vive tranquillo; non teme nulla che provenga dagli uomini e la sua tenera sposa non viene a tagliargli il naso”
Pieno di queste idee, si ritirò in una casa di campagna sulle rive dell’Eufrate. Lì non si dedicava a calcolare quanti pollici d’acqua scorrono in un secondo sotto le arcate di un ponte, né se cadeva una linea cubica di pioggia in più nel mese del topo piuttosto che in quello della capra.
Non vagheggiava di ricavare della seta dalle tele di ragno né della porcellana dai cocci di bottiglia; studiava invece principalmente le proprietà degli animali e delle piante ed acquisì ben presto una tale sottigliezza da scoprire mille dettagli laddove gli altri uomini non vedevano che un tutto uniforme.
Un giorno, passeggiando nei pressi di un boschetto, vide correre verso di lui un eunuco della regina, seguito da numerosi funzionari che sembravano preda della più grande inquietudine e che correvano qua e là come uomini smarriti che cercano ciò che di più prezioso hanno perduto.
“Giovanotto” gli disse il primo eunuco “ avete per caso visto il cane della regina?”
Zadig rispose con modestia: “E’ una cagna e non un cane”
“Avete ragione!” riprese il primo eunuco.
“E’ una cagna da caccia molto piccola” aggiunse Zadig; “ha partorito da poco, zoppica dalla zampa anteriore sinistra ed ha delle orecchie molto lunghe”
“L’avete vista allora?” disse il primo eunuco ansimando.
“No” rispose Zadig “non l’ho mai vista e non sapevo neanche che la regina possedesse una cagnetta”
Proprio in quel momento, per un capriccio della sorte, il più bel cavallo delle scuderie reali era sfuggito di mano al palafreniere nelle pianure di Babilonia.
Il guardacaccia e tutti gli altri funzionari lo inseguivano con altrettanta inquietudine quanta ne mostrava il primo eunuco inseguendo la cagna. Il guardacaccia si rivolse a Zadig e gli chiese se per caso avesse visto passare il cavallo del re.
“E’ ” rispose Zadig, ”il cavallo che galoppa meglio; è alto cinque piedi, ha gli zoccoli molto piccoli e una coda lunga tre piedi e mezzo; le borchie del suo morso sono d’oro a ventitré carati ed i suoi ferri sono d’argento a undici denari”.
“Che strada ha preso? Dov’è?” chiese il guardacaccia.
“Non l’ho visto” rispose Zadig “e non ne ho mai neanche sentito parlare”.
Il guardacaccia ed il primo eunuco non ebbero alcun dubbio che fosse stato Zadig a rubare il cavallo del re e la cagnetta della regina e lo fecero condurre dinanzi all’assemblea del Gran Desterham che lo condannò alla frusta ed a passare il resto dei suoi giorni in Siberia.
Appena terminato il giudizio, il cavallo e la cagna furono ritrovati ed i giudici si trovarono nella dolorosa necessità di rivedere la loro decisione, ma condannarono Zadig a pagare quattrocento once d’oro per aver detto che non aveva visto ciò che invece aveva visto.
Zadig dovette dapprima pagare l’ammenda, poi gli fu consentito di difendere la propria causa dinanzi al consiglio del Gran Desterham e lo fece in questi termini:
“Fari di giustizia, abissi di scienza, specchi di verità, che avete la pesantezza del piombo, la durezza del ferro, lo splendore del diamante e molte altre affinità con l’oro, giacché mi è permesso parlare dinanzi a questa augusta assemblea, vi giuro per Orosmade che non avevo mai visto la rispettabile cagnetta della regina né tantomeno il sacro cavallo del re dei re. Ecco ciò che mi è accaduto: me ne andavo verso il boschetto dove ho poi incontrato il venerabile eunuco e l’illustrissimo guardacaccia ed ho visto sulla sabbia delle tracce di un animale che ho facilmente riconosciuto essere quelle di un cane piuttosto piccolo.
Dei solchi lunghi e leggeri, impressi su delle piccole sporgenze della sabbia tra le impronte delle zampe, mi hanno fatto intuire che si trattava di una cagna con le mammelle pendenti e che pertanto doveva aver partorito da pochi giorni. Delle altre tracce in un senso diverso, che sembravano aver spianato la superficie della sabbia a fianco della zampe davanti, mi hanno invece suggerito che dovesse avere delle orecchie piuttosto lunghe; e quando ho notato che la sabbia era costantemente meno profonda in corrispondenza di una delle zampe, rispetto alle altre, ho capito che la cagna della nostra augusta regina, doveva essere un po’ zoppa, se posso osare dirlo.
Per quanto riguarda il cavallo del re, sappiate che passeggiando per i sentieri di questo bosco, ho scorto i segni dei ferri di un cavallo; essi erano sempre equidistanti. Ecco, mi dissi, un cavallo dal galoppo perfetto.
La polvere degli alberi, lungo un sentiero che ha una larghezza non superiore ai sette piedi, era stata smossa a destra ed a sinistra, a tre piedi e mezzo dal centro del sentiero.
Questo cavallo, mi sono detto, ha una coda di tre piedi e mezzo che, muovendosi da destra a sinistra, ha portato via la polvere. Ho quindi visto sotto gli alberi che formavano una volta alta cinque piedi, delle foglie cadute di recente dai rami; ho capito che le aveva toccate questo cavallo che pertanto doveva essere alto cinque piedi. Quanto al morso, deve essere d’oro a ventitré carati giacché ne ha sfregate le borchie contro un sasso che ho riconosciuto essere una pietra di paragone e che ho esaminato. Ho infine giudicato dai segni che i suoi ferri hanno lasciato su dei ciottoli di altro tipo, che essi erano ferrati in argento a dodici denari di fino.”
Tutti i giudici ammirarono la profonda e sottile capacità di giudizio di Zadig e ne giunse notizia fino al re ed alla regina. Nelle sale d’attesa, alla camera ed al governo non si parlava che di Zadig e, sebbene molti dei Magi ritenessero che dovesse essere bruciato come stregone, il re ordinò che gli venisse restituita l’ammenda di quattrocento once d’oro cui era stato condannato.
Il cancelliere, gli uscieri, i procuratori, si recarono presso la sua dimora con grande solennità per restituirgli le quattrocento once, ne trattennero solamente trecentottantotto per le spese legali mentre i loro valletti pretesero una mancia.
Zadig capì quanto fosse pericoloso talvolta risultare troppo preparato e si ripromise, qualora ne fosse capitata l’occasione, di non raccontare mai più ciò di cui fosse stato testimone.
Tale occasione capitò molto presto: un prigioniero di stato fuggì e passò sotto alle finestre della sua abitazione.
Zadig fu interrogato, non rispose nulla, ma riuscirono a provare che aveva guardato dalla finestra. Venne quindi condannato per un tale crimine ad un’ammenda di cinquecento once d’oro e dovette ringraziare i giudici per la loro clemenza, secondo le usanze di Babilonia.
“Gran Dio!” si disse “come ci si deve rammaricare di essere andati a passeggio proprio nel bosco dove la cagna della regina ed il cavallo del re sono andati a passare! E come è pericoloso affacciarsi alla finestra! E infine, com’è difficile essere felici in questa vita!

lunedì 15 marzo 2010

Capitolo 2 - Il naso

Capitolo 2
Il Naso
Un giorno Azora rientrò da una passeggiata furibonda ed tra le imprecazioni.
“Che avete – le disse – sposa mia cara, che vi fa perdere le staffe a tal punto?”
“Per la miseria! – disse lei – sareste indignato come me se aveste visto lo spettacolo di cui sono appena stata testimone! Ero andata a consolare la giovane vedova Cosroe, che da appena due giorni ha seppellito il suo giovane sposo sulla riva del ruscello che costeggia questa distesa erbosa. Aveva promesso agli dèi, nel suo dolore, che sarebbe rimasta accanto alla tomba finché l’acqua del ruscello avesse continuato a scorrerle accanto.”
“Ebbene! – disse Zadig – finalmente una moglie rispettabile che amava sinceramente il proprio marito!”
“Ah – riprese a dire Azora – se solamente sapeste in quali occupazioni l’ho trovata andando a farle visita!”
“A cosa era intenta dunque, bella Azora?”
“Stava facendo deviare il ruscello!”.
Azora si profuse quindi in una serie così lunga di invettive ed esplose in rimproveri tanto violenti contro la giovane vedova, che un tale sfoggio di virtù non piacque affatto a Zadig.
Egli aveva un amico, di nome Cador, che era uno di quei giovani nei quali sua moglie riscontrava più virtù e meriti che in altri: egli entrò con lui in confidenza e si assicurò, per quanto possibile, la sua fedeltà con un dono di considerevole valore.
Azora, dopo aver trascorso due giorni presso una sua amica in campagna, rientrò a casa al terzo giorno.
Dei domestici in lacrime le annunciarono che suo marito era morto improvvisamente, quella notte stessa, che non avevano osato portarle la cattiva notizia e che avevano appena seppellito Zadig nella tomba dei suoi genitori, al limitare del giardino.
Ella pianse, si strappò i capelli, giurò di morire.
Quella sera Cador le chiese il permesso di parlarle e finirono con il piangere entrambi.
Il giorno dopo piansero un po’ meno e pranzarono assieme.
Cador le confidò che il suo amico gli aveva lasciato la maggior parte dei suoi beni e le fece intendere che sarebbe stato felice di condividere con lei tale fortuna.
La donna pianse, si infuriò, si addolcì; la cena fu più lunga del pranzo; cominciarono a parlare con maggior confidenza.
Azora fece l’elogio del defunto marito, pur ammettendo che questi aveva dei difetti dai quali Cador era invece esente.
Nel mezzo della cena, Cador lamentò un violento dolore alla milza; la donna, inquieta ed impressionata, fece portare tutte le essenze che usava per profumarsi, per vedere se non ve ne fosse qualcuna adatta a curare il mal di milza; rimpianse inoltre che il grande Ermes non fosse ancora a Babilonia; si degnò inoltre di toccare il fianco dove Cador sentiva un dolore così vivo.
“Siete dunque soggetto a questa crudele malattia?” Chiese lei con compassione.
“Alle volte mi conduce quasi alla tomba” le rispose Cador, “e non vi è che un rimedio che mi reca sollievo: consiste nell’applicarmi sul fianco il naso di un uomo morto il giorno prima”.
“Un rimedio ben strano” disse Azora.
“Di certo non più strano dei sacchetti di siero Arnoult contro l’apoplessia”.
[Vi era a quei tempi un babilonese di nome Arnoult che guariva e preveniva le apoplessie, si dice, con un sacchetto appeso al collo]
Questa osservazione, unita all’estrema virtù del giovane, convinsero infine la donna.
“Dopo tutto” disse lei “quando mio marito passerà dal mondo di ieri al mondo di domani sul ponte Cinavar, l’angelo Asrael potrà forse negargli il passaggio per il solo fatto che il suo naso è un po’ meno lungo nella sua seconda vita che non nella prima?”
Preso dunque un rasoio, si recò presso la sepoltura dello sposo, l’innaffiò delle sue lacrime e si avvicinò per tagliare il naso a Zadig che trovò disteso nella tomba.
Zadig si sollevò tenendosi il naso con una mano ed arrestando con l’altra il rasoio.
“Mia signora” le disse “non vi era dunque ragione di infuriarsi a quel modo con la giovane vedova Cosroe; l’intenzione di tagliarmi il naso val bene quella di deviare un ruscello.”

Capitolo 1 - Il guercio

Capitolo 1
Il Guercio
Ai tempi di re Moabdar, vi era in Babilonia un giovane di nome Zadig, dotato di un bel carattere rafforzato da una buona educazione.
Sebbene fosse ricco e giovane, sapeva moderare le proprie passioni: non si dava delle arie, non voleva aver sempre ragione e sapeva rispettare le debolezze degli uomini.
Si rimaneva stupiti di vedere come, con molta intelligenza, non si facesse mai beffe di quei discorsi vaghi, frammentari, disordinati, di quelle sfacciate maldicenze, di quelle affermazioni rozze, di quelle farse grossolane, di quella vuota confusione di parole che in Babilonia chiamavano conversazione.
Egli aveva appreso, nel primo libro di Zoroastro, che l’amor proprio è un pallone gonfio di vento, da cui erompono bufere quando viene bucato. Soprattutto Zadig non si vantava di disprezzare le donne e di sottometterle.
Era generoso; non temeva affatto di aiutare gli ingrati, seguendo in questo quel grande insegnamento di Zoroastro: “Quando mangi, dài da mangiare ai cani, dovessero morderti”.
Era saggio per quanto fosse possibile esserlo, giacché cercava di vivere con dei saggi.
Istruito nelle scienze degli antichi Caldèi, non era all’oscuro dei principi fisici della natura, come si conoscevano allora, e di metafisica sapeva quanto se ne è saputo in qualsiasi epoca, ovverosia ben poco.
Era fermamente convinto che l’anno fosse composto da trecentosessantacinque giorni ed un quarto, malgrado la nuova filosofia della sua epoca, e che il sole fosse al centro dell’universo; e quando i più autorevoli magi gli dicevano, con sprezzante presunzione, che coltivava malvagie credenze, e che significava essere nemici dello stato il ritenere che il sole girasse su sé stesso e che l’anno contasse dodici mesi, egli taceva senza collera o sdegno.
Zadig, con molte ricchezze e di conseguenza con molti amici, godendo di buona salute, di un aspetto piacevole, di uno spirito giusto e moderato, di un cuore sincero e nobile, credette di poter essere felice.
Doveva sposare Semira che, per bellezza, stirpe e ricchezza, era il miglior partito di tutta Babilonia.
Egli nutriva per lei un affetto solido e virtuoso, lei lo amava con passione.
Erano oramai vicini al fortunato momento che li avrebbe uniti allorché, mentre camminavano assieme verso una delle porte di Babilonia, sotto i palmeti che ornavano le rive dell’Eufrate, videro sopraggiungere due uomini armati di sciabole e frecce.
Si trattava degli inviati del giovane Orcan, nipote di un ministro, al quale i cortigiani dello zio avevano fatto credere che tutto fosse consentito.
Egli non possedeva nulla del fascino e delle virtù di Zadig, ma, ritenendo di valere molto più di lui, si disperava di non essergli preferito.
Questa gelosia, che nasceva solamente dalla sua stessa vanità, lo portò a credere di essere perdutamente innamorato di Semira e volle quindi rapirla.
I rapitori la afferrarono e, nel trasporto della loro brutalità, la ferirono, facendo sanguinare una persona la cui vista avrebbe intenerito le tigri del monte Imaus.
I suoi pianti trafiggevano il cielo; gridava: “Oh mio amato sposo! Mi sottraggono a colui che adoro.” non essendo affatto preoccupata del pericolo che la minacciava, ma pensando solamente al suo caro Zadig.
Questi, intanto, la difendeva con tutte le forze generate dal coraggio e dall’amore. Con l’aiuto solamente di due schiavi, riuscì a mettere in fuga i rapitori, e ricondusse a casa Semira svenuta e sanguinante, la quale aprendo gli occhi e vedendo il suo liberatore disse:
“O Zadig! Vi amavo come mio sposo, ora vi amo come colui al quale devo l’onore e la vita”.
Mai cuore fu più colmo d’amore di quello di Semira; mai bocca più radiosa aveva espresso sentimenti più toccanti con quelle parole ardenti ispirate dall’emozione per il grande beneficio ricevuto e dal tenerissimo trasporto dell’amore più legittimo.
La sua ferita era leggera ed ella guarì rapidamente.
Zadig invece era stato ferito più pericolosamente; un colpo di freccia vicino all’occhio gli aveva procurato una profonda piaga.
Semira non domandava agli dèi che la guarigione del suo amato. I suoi occhi erano notte e giorno bagnati dalle lacrime ed ella attendeva il momento in cui quelli di Zadig avrebbero finalmente potuto gioire dei suoi sguardi: sfortunatamente però, un ascesso sopravvenuto all’occhio ferito fece temere il peggio.
Si mandò a chiamare nella lontana Menfi il grande dottore Ermes, che sopraggiunse con un numeroso seguito.
Questi visitò il malato e dichiarò che avrebbe perduto l’occhio; egli predisse persino il giorno e l’ora in cui sarebbe avvenuto tale funesto evento. “Se si fosse trattato dell’occhio destro – disse – l’avrei di certo guarito; ma le ferite all’occhio sinistro sono purtroppo incurabili!”
Tutta Babilonia, nel compiangere il destino di Zadig, ammirò la profondissima scienza di Ermes.
Dopo due giorni l’ascesso si ruppe da solo e Zadig guarì perfettamente. Ermes scrisse un trattato in cui gli dimostrò che non sarebbe dovuto guarire.
Zadig non lo lesse, ma, non appena fu in grado di uscire, si preparò a far visita a colei che incarnava la speranza di felicità per la sua vita, la sola per cui desiderava avere degli occhi. Semira era in campagna da tre giorni. Egli venne a sapere durante il tragitto che la bella fanciulla, dopo aver dichiarato apertamente di nutrire un’invincibile avversione per i guerci, si era sposata con Orcan quella notte stessa.
A questa notizia egli cadde svenuto; il dolore lo condusse quasi alla tomba; rimase per lungo tempo malato, ma alla fine la ragione riuscì ad averla vinta sul dolore e l’atrocità di ciò che provava servì persino a consolarlo.
“Giacché ho sofferto – si disse – per un crudele capriccio di una fanciulla educata presso la corte, sarà opportuno che mi sposi invece con una fanciulla di città”.
Scelse quindi Azora, la più saggia e di buona famiglia in città; la sposò e visse per un mese con lei, nella dolcezza della più tenera delle unioni.
Solamente riscontrava in lei un po’ di leggerezza, ed una certa tendenza a credere che i giovani più attraenti fossero anche quelli più dotati di spirito e di virtù.

Zadig - Intro e dedica

ZADIG

ovvero

IL DESTINO

RACCONTO ORIENTALE

1747

Premessa

Io sottoscritto, che mi son fatto passare per uomo dotto e, persino, per uomo d’ingegno, ho letto questo manoscritto e l’ho trovato, mio malgrado, curioso, divertente, morale, filosofico e degno di rimaner gradito anche a coloro che disdegnano i romanzi.

L’ho pertanto denigrato ed ho assicurato al signor cadì-leschier che trattasi di un’opera insopportabile.


DEDICA

DI ZADIG

ALLA SULTANA SHERAA

DA SADI

Il 10 del mese di Schewal

anno 837 dall’Egira

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Incanto degli occhi, tormento dei cuori, luce dello spirito, non bacio la polvere dei vostri piedi perché voi non camminate affatto, o lo fate su tappeti persiani e su letti di rose.

Vi offro la traduzione di un libro di un antico saggio che, avendo la buona sorte di non aver nulla da fare, si divertì a scrivere la storia di Zadig, opera che dice più di quanto non sembri.

Vi prego di leggerla e di giudicarla, giacché, sebbene voi siate nella primavera della vostra vita, sebbene tutti i piaceri vi inseguano, sebbene voi siate bella e sebbene le vostre virtù non facciano che accrescere il vostro fascino; sebbene veniate lodata dalla sera alla mattina e sebbene, per tutte queste ragioni, voi abbiate tutti i diritti di fare a meno del buon senso, tuttavia siete dotata di grande saggezza e di un gusto estremamente raffinato ed ho avuto modo di sentirvi ragionare meglio dei vecchi dervisci dalla barba lunga e dal cappello a punta.

Siete discreta ma niente affatto diffidente, siete dolce senza esser debole; siete generosa ma con discernimento; amate i vostri amici senza farvi dei nemici.

Il vostro spirito non trae piacere dalle malignità; voi non dite cattiverie e non ne fate, sebbene vi sarebbe estremamente facile.

Il vostro animo, infine, mi è sempre apparso puro come la vostra bellezza.

Possedete inoltre quel pizzico di filosofia che mi ha fatto pensare che avreste gradito più di altre quest’opera di un saggio.

Essa fu originariamente scritta in antico caldeo, che né voi né io siamo in grado di comprendere; venne quindi tradotta in Arabo, per il piacere del famoso sultano Ulug-beb.

Era l’epoca in cui Arabi e Persiani presero a scrivere le varie “Mille ed una notte”, “Mille ed un giorno”, ecc…: Ulug amava la lettura di Zadig, ma le sultane preferivano le “Mille ed un qualcosa”.

“Come potete preferire” diceva loro il saggio Ulug, “dei racconti privi di senso e che non hanno alcun significato?”

“Proprio per questo ci piacciono tanto!” rispondevano le sultane.

Sono fiducioso che voi non somiglierete ad esse, ma sarete invece come Ulug.

Spero anche che, stanca di conversazioni banali simili a quelle dei “Mille ed un…”, ma molto meno divertenti, troverete un minuto per concedermi l’onore di parlarvi con ragionevolezza.

Se voi foste stata Talestris ai tempi di Scander, il figlio di Filippo, o se foste stata la Regina di Saba al tempo di Salomone, sarebbero stati questi re che avrebbero fatto il viaggio.

Prego le virtù celesti affinché le vostre gioie siano senza ombre, la vostra bellezza sia duratura e la vostra felicità senza fine.

SADI